giovedì 27 febbraio 2014

Grazie Sotigui (1)

 
Un saluto e qualche pensiero per Sotigui Kouyaté



Ieri sera, il 17 aprile 2010 alle 18.47, sei ritornato alla terra, Sotigui, alla tua terra calda che ti aspettava e ti accoglierà ora con dolcezza.
 Io non so ancora capacitarmi che non sentirò più la tua voce né incrocerò il tuo sguardo o i tuoi sorrisi così pieni di amore per i tuoi figli. Siamo in tanti a piangerti, in tanti che ti porteranno sempre con loro. Ormai dovrò cercarti dentro di me, nella pancia e nei ricordi - che sono per fortuna così tanti - oppure nella natura che hai tanto amato, nella terra concreta e nel vento.
E’ questo un mistero incomprensibile che si ripete da sempre e che mai potrà esser compreso fino in fondo da chi ama un altro che scompare.
Così, all’improvviso, lui va via. Un attimo fa era qui tra noi… adesso non c’è più… non ci sarà mai più. La mente non può capire, può solo accettare, farsene una ragione, ma capire no, non è possibile. Il mistero della morte in tutta la sua grandezza e in tutta la sua semplicità rimane in un altrove dove nessuna parola può giungere. Almeno nella sua essenza, quella che vibra e ci fa vibrare, quella che fa risuonare in noi tutta la musica della vita che ci è stata data e che siamo chiamati a sentire con tutti i nostri sensi.
La vita brucia e si spegne presto, come la candela a fianco del mio letto che ha liberato la sua fiamma e accompagnato in questo nuovo viaggio la tua anima per tutta questa notte. Bruciava insieme agli incensi del Mali che ho conosciuto nella tua casa, Sotigui, e che da lì provengono per dare un profumo alla mia dimora. Passa veloce, una notte, e si consuma in un baleno la bella cera bianca, il suo corpo svanisce nel nulla, il tuo bel corpo magrissimo e secco, pulito fino al midollo, che non teneva dentro di sé nulla d’altro che l’indispensabile per sopravvivere. Il corpo è lo specchio dell’anima e la nobiltà del tuo era il naturale riflesso del tuo spirito così alto.

Pochi mesi fa abbiamo passato due settimane insieme e spesso, in quei lunghi pomeriggi tranquilli, mi arrampicavo sulla tua immensa poltrona, grande come il trono di un re, e seduto sullo schienale ti massaggiavo la schiena. Quanto dovevamo essere buffi da vedere, una specie di altissima scultura africana nel tuo salotto multicolore!
Io bianco, tu nero, le mie mani sul tuo collo che si piegava morbido e sulla tua lunghissima schiena. Ti lasciavi massaggiare come un bambino, senza nessuna resistenza e borbottavi: “In me ci sono ormai solo pelle e ossa…”. Io invece sentivo la tua anima con le mie dita e il tuo corpo asciutto mandava segnali chiari e gradevoli. A te piaceva il mio modo di toccare senza tecnica né conoscenza, io stavo bene e molto a mio agio nel percorrere senza pensieri i tuoi rilievi ossuti ma dolci. Così nel silenzio abbiamo passato qualche ora insieme.

Sono passati in questo modo semplice i giorni trascorsi nella tua calda casa di Parigi, non ci sono state tante parole superflue tra noi ma una tacita intesa, quella sì. Io senza l’ansia di ricevere da te nuovi doni di saggezza, senza il bisogno di scavare nei tuoi tesori, tu aperto com’è un padre con un figlio a cui non deve dare più troppe indicazioni, eri bambino come solo un grande vecchio sa essere.
Rimanevi a lungo in silenzio mentre la vita della famiglia intorno a te continuava a pulsare. Chiedevi senza parole che ci si ricordasse di te, della tua presenza, desideravi un’attenzione semplice, normale, avevi il tuo spazio grande, ampio ma insieme piccolo, sempre più piccolo. Il tuo spazio tra gli altri.
Lasciavi venire la tua morte tra di noi, tranquillamente, silenziosamente, togliendo, togliendo, e togliendo ancora. Toglievi di te per far posto ad altri e lasciar vivere quella tua parte che ora respira in noi. Stavi tra noi ma in certi momenti la sensazione era come se tu non ci fossi più senza tuttavia che ciò divenisse un’assenza. Al contrario, la tua presenza era ancora più netta, più chiara anche se le tue esigenze personali, quelle dell’uomo Sotigui, dell’individuo, giorno per giorno cominciavano a passare in secondo piano rispetto a quelle degli altri, dei “giovani” che ti circondavano.
Il tuo spirito, poco alla volta, cambiava di corpo. Con dolcezza. Senza che tu ti estraniassi, senza che ti ritirassi nelle tue stanze, ti chiudessi in una solitaria fine, eri tra noi che mangiavamo, parlavamo, ridevamo. Ci stavi consapevolmente preparando alla tua partenza. Quanta aderenza al mondo della Natura avverto nel tuo atteggiamento, a quella società di “alberi, animali e persone” che tanto apprezzavi e incarnavi!

Il tuo ascolto, qualcosa che davvero ti appartiene, era tuttavia sempre lì con noi. Almeno finché ho potuto vederti, posso testimoniare che non si è mai affievolito. Quando parlavamo, anche se lo facevamo sottovoce o lontani da te, ci sentivi perfettamente. Con il tuo ascolto partecipavi, suscitavi, condividevi. Parlare ti era penoso ormai e ogni respiro era uno sforzo.
Ma con tutta la tua anima ascoltavi.
Ascoltavi me e Yagaré mentre giocavamo a Monopoli seduti al tavolo e senza pronunciarlo chiedevi con il tuo sorriso ironico e amorevolmente provocatorio: “Qui a gagné?”. Yagaré, la tua bellissima princesse di cui eri giustamente tanto fiero e che è così impregnata del tuo ritmo e della tua grazia.
Ascoltavi, con l’orgoglio del vecchio griot Kouyaté tuo nipote Miguel mentre lui ed io ci divertivamo un mondo: in Miguel vibra tutta l’energia della tua bella famiglia e l’infinita dolcezza dell’altro tuo figlio, il più grande, Dani.
Ascoltavi la parole di Mabo, il fratello maggiore di Yagaré che ha i dread biondi e l’irresistibile bellezza dei vent’anni, pronto per essere uomo, pronto per partire per mari lontani ma anche pronto ad assumersi le responsabilità di chi deve tenere in piedi la tua famiglia.
E ascoltavi - con che gratitudine! - la tua amatissima Esther mentre era di là affaccendata nella sua “sala del tè”: lei che tanto ti è stata vicina e ti ha voluto bene. La notte di questo capodanno, l’ultimo per te in questa vita, Esther l’ha passata nel suo letto, ammalata, e i tuoi pensieri e le tue attenzioni erano tutti per lei.
Quella sera i giovani, a fatica e loro malgrado, ma seguendo l’irresistibile bisogno di vivere, erano andati a cercare delle feste mentre tu ed io siamo rimasti quasi sempre in silenzio nella sala. A tratti anche dormendo, io sul comodo divano ricoperto di tessuto bogolan e tu seduto sull’amata poltrona. Ci siamo ascoltati senza nulla più e il tuo modo di farlo, vigile, attento, umano, rimarrà per me il tuo ultimo insegnamento, quello che vorrei poter approfondire negli anni che mi restano. E’ un ascolto, il tuo, che sente anche i pensieri, i sentimenti, le intenzioni. L’ho sentito bene in te e ora mi farà da guida.  

La tua famiglia, che sento anche mia tanto mi è vicina, è per fortuna forte e unita. “Siamo tutti ben stabili sui nostri piedi”. Sono le parole di Mabo, parole di un ragazzo determinato che è pronto ad agire e a far fronte alla situazione. In lui mi rivedo e rivivo quello che vissi 26 anni fa il giorno in cui mia mamma se ne andò.
Ti hanno accompagnato fino alla fine, Sotigui, e ti hanno tenuto le mani nelle loro anche nelle ultime ore. Mabo mi ha detto che rispondevi così, con piccole strette e pressioni delle dita alle loro domande e parole. C’eri, sentivi, capivi…
Le tue mani speciali con le dita belle e affusolate hanno carezzato e stretto le mie tante volte. Io lasciavo le mie riposare tra le tue e si entrava in un tempo senza tempo. Ora sono triste al pensiero di non poterle più incontrare, di non far più schioccare insieme a te le dita in segno di saluto come mi hai insegnato e come si usa in Burkina. Sono loro, le mani, regine della comunicazione non verbale, che hanno parlato ai tuoi cari quando i tuoi occhi non si aprivano più e le labbra non potevano più pronunciare le parole che avresti voluto.
Adesso, tra poche ore, Esther, Mabo e Yagaré ti porteranno in Burkina nella tua Africa. In questo ultimo viaggio ritornerai a casa e alla tua terra. Come potrebbe essere altrimenti? Quella stessa Africa, quella casa e quelle persone daranno alla tua famiglia tutto l’affetto e il calore di cui hanno bisogno. Moltiplicato per mille, con tutta la generosità che gli africani sanno offrire. La tua “grande” famiglia accoglierà la “piccola” nel suo grembo e ne sono felice anche solo al pensiero. Io verrò a trovarti presto, spero questo inverno, se finalmente sarà per me il momento di intraprendere questo viaggio che insieme dovevamo fare e se a Dio piacerà che ciò avvenga. Cercherò il tuo spirito in qualche grande albero.

(continua...)

mercoledì 26 febbraio 2014

Aikido - intervista (2005)


Intervista sull’Aikido

 di Mimmo Lombezzi a Giovanni Frova


(Apparsa in versione ridotta su “il manifesto” del 30 ottobre 2005)



Di che cosa si tratta e in che cosa differisce dalle altre arti marziali ?
Ho praticato aikido per più di 20 anni, l’aikido che ha presentato in Europa il maestro Itsuo Tsuda.
Oggi si pensa che l’aikido sia un’arte marziale come le altre, ma a me aveva interessato proprio perché c’era una differenza e questa differenza stava nel fatto che non si cercava di proporre un’arte che sviluppasse la forza, la capacità di combattere con gli altri ma veniva proposta  una pratica che poteva diventare uno strumento di ricerca dentro di sé, una pratica che ci avvicini man mano a quella che è la nostra verità interiore e che ci permetta ello stesso tempo di incontrare altre persone diverse da noi. Questa è la prima cosa che mi ha interessato. Personalmente le arti marziali in sé non hanno mai attirato la mia attenzione mentre la possibilità di scoprire chi siamo realmente questo sì mi interessava.

Com’è possibile scoprire la propria realtà interiore attraverso un’attività fisica che per quello che “appare” richiama lo scenario delle arti marziali: ci sono prese attacchi immobilizzazioni…
Diciamo che quando uno cerca dentro di sé può fare un percorso strettamente intellettuale oppure può andare a cercare attraverso un risveglio della sensibilità, un ritrovare un contatto con il proprio corpo, un contatto con quello che sentiamo. L’aikido è la possibilità di risvegliare questa sensibilità. E’ quindi qualche cosa di estremamente concreto, non un percorso astratto: ci si  trova davanti a un’altra persona, a dei ritmi biologici diversi dal nostro.

Tu parli di contatto ma oggi si sente parlare soprattutto di “full contact”, il “contatto” che viene proposto in realtà è un “impatto”, uno scontro.
I contatti tra le persone possono essere di natura molto diversa. Effettivamente in un’arte di combattimento si privilegia l’aspetto dell’”efficacia”, e di “potenziamento” per potersi imporre sugli altri. E’ una logica comune non solo al mondo delle arti marziali di oggi ma a tutta questa società in cui per farsi spazio, per poter sopravvivere, per poter respirare, per poter dire “io esisto” c’è bisogno di imporsi sugli altri, di dimostrare di essere più forti, più capaci, più colti. In ogni ambito, c’è sempre un “più” che emerge. Questo fa sì che la logica prevalente sia quella dello scontro, del confronto, ma perché ci sia un reale incontro fra le persone bisogna fare un passo indietro, in qualche maniera mettere a tacere l’io che siamo, per poter  ascoltare l’altro: in questo senso anche il movimento non diventa di impatto ma piuttosto un movimento che accoglie, che ascolta, un movimento che potremmo definire di “unione”: che non significa negare o annullare se stessi bensì lasciare più spazio all’altro. Tutto ciò passa attraverso un’attenzione portata alla persona che abbiamo di fronte – che può piacerci o no – al suo ritmo, alla sua respirazione.
L’aikido è un’arte della respirazione e attraverso la respirazione ci si  puo’ incontrare, unire e poi anche separare. Attraverso la scoperta del diverso da noi possiamo scoprire anche una pienezza che altrimenti non sentiamo più, sentirci partecipi di una realtà molto più grande di noi.

Nell’aikido ci sono delle forme, dei “kata”. Come è possibile trovare la “fusione” di cui stai parlando attraverso dei kata ?
In ogni arte giapponese il “kata” è la base, è la forma che le dà una struttura e anche nell’aikido ci sono delle forme, delle regole…E’ però interessante sapere che le forme si possono superare, che non sono fini a se stesse. Utilizziamo la tecnica non come uno scopo ma come uno strumento, uno strumento di contatto.
Nel mondo dei marzialisti è piuttosto comune il discorso che sostiene che un’arte marziale per essere considerata vera o sincera dev’essere anche efficace e verificabile in un contesto di combattimento. Se c’è troppa intesa o armonia tra i praticanti facilmente essa viene bollata come “finta” ed inefficace, come se fosse soltanto una specie di “accordo” fra i partner a conferirle un’apparente validità. A me l’efficacia non interessa ma non per questo la mia pratica mi sembra meno veritiera. Forse è una verità d’altro tipo quella che cerco e non la cerco da solo ma “insieme” alla persona con cui pratico, una verità più profonda che mi invita a scavare dentro di me con tutta la sincerità di cui sono capace. Non tento di mascherare, con le mie conoscenze tecniche o la mia esperienza, la persona che sono, l’umanità che sono, qui, ora, in questo istante. 
Quindi le tecniche, le prese, gli attacchi sono solo lo strumento attraverso il quale può succedere qualcosa, il mezzo attraverso cui accedere al patrimonio umano che esiste in tutti noi. L’aspetto più importante dell’aikido per me è proprio l’incontro di umanità diverse, l’incontro di due persone che altrimenti forse non riuscirebbero a dialogare. Anche questo è interessante: quando incontriamo una persona proviamo subito un’attrazione o qualche cosa che ci respinge. Attraverso l’aikido può nascere un contatto anche con persone con cui a priori non avremmo alcun desiderio di approfondire un rapporto. Attraverso qualcosa che non sono parole ma che, fondamentalmente, è “attenzione” c’è la possibilità di scoprire che “qualcosa passa”, che un dialogo è possibile.

Ma moltissime persone si avvicinano alla arti marziali cercando un’efficacia, un mezzo per reagire per esempio ad un’aggressione. Che rapporto c’è fra questa esigenza e quello che fate voi ?
Credo che in situazioni di emergenza,  quando corriamo un pericolo, quando veniamo aggrediti da qualcuno, quello che fa sì che riusciamo a  liberarci, a trarci d’impaccio, a salvarci la vita, difficilmente sia qualcosa che si possa ricondurre a una tecnica appresa; è piuttosto un istinto, un istinto di sopravvivenza, un desiderio di vita, una vitalità… e anche una decisione interiore che uno può avere o no.
Di fronte a una situazione pericolosa, una persona decisa, sveglia e fisicamente presente saprà reagire molto meglio di qualcuno che magari è diventato cintura nera di una tecnica piuttosto che di un’altra. Non mancano i casi di cronaca che ci parlano di grandi esperti nel campo delle arti marziali che di fronte a una situazione di reale pericolo si dimostrano assolutamente incapaci di agire.

C’è chi definisce l’aikido come una sintesi di diverse arti marziali, quasi un punto di arrivo per chi ricerca in questo ambito.
Non penso che l’aikido sia un’arte marziale superiore ad altre. E’ una via, un cammino tra tanti altri, con le proprie caratteristiche, la propria filosofia. Ogni altra arte ha anch’essa le proprie specificità, la propria filosofia. Ogni praticante, comunque, sceglie un’ arte sulla base dei propri bisogni e della ricerca che sta facendo.
Si parlava di “accordo” tra i praticanti, bene, penso che anche dove si pratichi il taichi chuan, il kung fu o il kendo ecc., ci sia sempre un terreno di accordo, un terreno nel quale le persone sono accomunate da un certo tipo di ricerca, hanno un interesse comune. Questo non significa che quando uno attacca debba attaccare in modo falso, coreografico; ci deve essere una realtà in quello che si fa. Nell’aikido che pratichiamo c’è questa realtà ma non per questo c’è aggressività; non c’è il desiderio di mettere in difficoltà il nostro partner. C’è piuttosto il desiderio fare delle scoperte, noi in prima persona, ma anche di permettere all’altro di scoprire qualcosa. L’accordo è piuttosto una comunanza di intenti, un desiderio di approfondire qualcosa insieme piuttosto che rimanere soli nel nostro piccolo mondo; senza di questo, possiamo ritrovarci soli anche in un contesto in cui siamo circondati da molte altre persone. L’aikido, per me, consente di uscire da questa solitudine.
Ed è interessante perché questo vuol dire accettare i propri limiti.
Mi ritornano spesso in mente le parole del Maestro Tsuda quando diceva “per me l’aikido è la possibilita di fare ogni giorno i conti con quelli che sono i miei limiti”. Occasione quotidiana di vederci così come siamo, lasciando cadere l’immagine presentabile che abbiamo cercato di costruire di noi stessi e constatare fino a che punto quest’ultima ci impedisce di vivere pienamente.
Per farlo non possiamo essere soli. Abbiamo bisogno di avere qualcuno di fronte che, come uno specchio, ci mette di fronte ai nostri limiti.Il desiderio di andare in questa direzione è anche un desiderio di sincerità nei propri confronti.
E il senso della mia ricerca  oggi è andare verso qualcosa che mi riporta a una sincerità interiore e mi rendo conto pian piano attraverso l’aikido di quante cose inutili in qualche modo offuscano questa sincerità e di come lasciando cadere man mano delle cose e accettandoci per quelli che siamo e non per quelli che vorremmo essere, è come se qualcosa si ripulisse. Per usare un’immagine molto nota è come uno specchio pieno di polvere che non riflette più nulla e man mano che togliamo questa polvere che è assolutamente inutile lo specchio torna di nuovo a riflettere un po’.
Ed è gradevole lasciar cadere poco per volta quello che è fondamentalmente inutile.

Puoi fare un esempio di questo “lasciar cadere” ?
Per esempio, io per anni avevo una difficoltà nel contatto fisico con le persone.
Nel senso che o si trattava di un contatto intimo con una compagna oppure il contatto era praticamente inesistente e la possibilità di ritrovare un contatto fisico semplice, non finalizzato a qualcosa è stata estremamente importante. Non entro nel merito dei motivi che causavano questa difficoltà, di fatto ad un certo momento l’ho avvertita come una forma di protezione inutile, che mi limitava. Ed il desiderio di liberarmene ha creato già da solo le condizioni perché qualcosa cadesse, se ne andasse, poco per volta. 
Siamo abituati ad agire sempre con uno scopo, nell’aikido è possibile ritrovare la possibilità di agire senza una finalità quindi anche il contatto con un’altra  persona non ha necessariamente uno scopo ma diventa una senzazione “pura”, una sensazione importante in sé e per sé.
E’ un po’ ritrovare la condizione del bambino che sta giocando, il fatto di essere pienamente  dentro al gioco senza che questo gioco abbia una finalità che vada oltre al gioco stesso. Anche il contatto fisico può essere di questa natura, tanto più forte in quanto privo di interpretazione, di significato. E tutto ciò ci pone davanti a noi stessi nella misura in cui per esempio una persona scopre di avere un lato di aggressività interiore che non ha mai espresso e che paradossalmente le rende molto difficile il fatto di “attaccare” un’altra persona. Proprio in quel momento, scopre che non riesce ad attaccarla non tanto perché manca di questa  aggressività ma perché dentro di sé  sente di averne anche più di altri e teme che da se stessa possa uscire qualcosa di incontrollabile. La difficoltà di imparare ad attaccare in certi casi deriva da questo.
Un’altra pratica che facciamo è il “kiai”, un esercizio respiratorio in sui si comprime la respirazione prima di lasciarla distendere emettendo un suono che è espressione di qualcosa di molto profondo in noi. Dopo alcuni anni di pratica questo suono non parte più dalla gola ma da zone più basse, più ventrali.Bene, molte persone all’inizio si sentono intimorite anche alla sola idea di lasciar uscire un suono profondo, e magari anche potente, ma il fatto di scoprire che puoi lasciar uscire liberamente e senza timori la voce ha in certi casi il sapore di una conquista.

Perché Tsuda chiamava l’aikido via della spoliazione?
Un‘ idea molto diffusa è quella che per vivere meglio, per sentirsi meglio nella propria pelle abbiamo bisogno di crescere ma l’idea di crescere è associata al fatto di diventare qualche cosa “di più”, cioè di diventare più ricchi, avere un maggior bagaglio di conoscenze ecc, il tutto in un’ottica di accumulazione e partendo dal presupposto che si cominci da poco o niente per diventare qualche cosa di più… presentabile.
Per Tsuda, al contrario, si trattava di un cammino di spoliazione nel senso che occorre prendere coscienza che siamo già fin troppo carichi di tutto, di nozioni, di conoscenze, di idee ecc. e che tutto questo carico essendo al 99% inutile ci impedisce di sentirci liberi. La sensazione di libertà infatti aumenta man mano che abbandoniamo dei pesi, che lasciamo la presa su tutta una serie di cose che sostanzialmente restringono il campo della nostra vita.

Delle difese?
Anche delle difese, ma attenzione non tutte! Sin da piccoli siamo obbligati a difenderci da aggressioni di ogni tipo e abbiamo accumulato difese che sono diventate vere e proprie corazze. Era una necessità per poter sopravvivere.
Alcune di queste difese, però, a un certo punto diventano inutili e se lasciamo agire la saggezza inconscia del nostro corpo, pian piano esso si libera di ciò che non è più necessario. Vuol dire che una parte interiore di noi è diventata più forte e che non abbiamo più bisogno di “bastioni protettivi”perché il nostro corpo ha ritrovato una vitalità, un asse centrale e una fiducia che aveva smarrito.

mercoledì 12 febbraio 2014

Aikido a Kyoto (6)


(continua..)





Giovedì 10 gennaio sono stato invitato da Haseo a praticare il Katsugen undo (movimento rigeneratore) nel suo dojo che si trova anch’esso a Fushimi. Haseo, sposata con un prete buddhista, è per natura aperta e gioviale. E’ felice della mia visita e mi accoglie sorridente. Il dojo, bellissimo, con i suoi tatami in paglia di riso, le pareti scorrevoli ricoperte di carta, le travi e gli infissi di legno. C’è poco da fare, l’architettura degli interni giapponesi è davvero raffinata e al contempo gradevolissima. L’occhio si riposa beato e il corpo si sente accolto in un’atmosfera familiare dal tepore avvolgente. Anche qui le finestre danno sul giardinetto interno e il distacco con l’esterno, con il mondo che sta fuori, non è netto. Siamo dentro, al caldo, ma basta far scorrere leggermente il pannello per sentirsi tra le fresche piante invernali.
Dopo la seduta di pratica, tutti quanti – siamo una decina – usciamo e ci dirigiamo verso la piccola stanza per il thé che sta nel giardino, invitati a gustare il thé verde preparato dalla figlia di Haseo. Finalmente entro anch’io dalla minuscola porticina che tante volte avevo visto nelle foto e nelle diapositive. Chiunque, anche il più nobile e importante personaggio, deve chinarsi per entrare. Dentro si è tutti uguali, persone che incontrano persone per condividere attimi, sapori e suoni irripetibili. Scarpe, spade e quant’altro vengono lasciati fuori.
Prima di entrare però mi lavo le mani e sorseggio l’acqua della fontana con il mestolo di bamboo. Poi verso la parte d’acqua rimanente sul mestolo stesso, inclinandolo. E’ così che lo si lava e lo si lascia pulito per il prossimo avventore. L’acqua scorre a terra, scivola tra le pietre e gocciola nel pozzetto metallico sottostante, tintinnando allegramente e facendo risuonare eco lontane. La sensibilità sottile è chiamata ad esprimersi.
Per la prima volta in vita mia sono “primo ospite”. Per me viene preparato il primo thé e lo gusto appieno, non senza aver chiesto scusa al mio vicino di sinistra perché bevo prima di lui… “O saki ni choudou itashimasu…”. Il thé verde e i dolci che lo accompagnano hanno un gusto tutto particolare in quest’atmosfera raccolta e serena. Siamo tutti pigiati in questo piccolo spazio sobrio e silenzioso, uniti intorno all’acqua che bolle nella teiera fumante. Bello e semplice.
Poi ci dirigiamo nuovamente  verso la casa principale. In cucina prepariamo e consumiamo il pranzo tutti insieme. Okonomiyaki. Specialità di Osaka e in generale di questa regione, il Kansai. Assisto divertito alla preparazione di queste succulente pietanze. Io faccio le foto, loro scherzano e impastano uova, verdure varie, gamberetti ecc, poi mettono il tutto a cuocere sulla piastra di metallo ardente. Con delle spatole, queste “frittate” tonde e spesse vengono girate e rigirate. Finché sono dorate e formano un sottile crosta croccante. Non chiedetemi esattamente la ricetta degli Okonomiyaki, le ricette non sono il mio forte, però posso dirvi che sono buoni e molto nutrienti. Si sposano bene con la birra.
Onaka ga ippai” ho la pancia piena. Con il caffé cominciamo a parlare di argomenti più seri. Non so come, la conversazione finisce per portarsi sull’Aikido e su Itsuo Tsuda. Mi vengono fatte tante domande che riguardano Tsuda e la sua storia, il suo lavoro in Europa e la sua filosofia. Parlo per più di un’ora, raccontando tante cose. Tsuda, nel mondo del Seitai, è una figura che appartiene ad un passato piuttosto lontano e dai contorni indistinti. E’ come se ora sbarcasse in Giappone dopo tanti anni di lontananza e come se le sue parole tornassero vive e portatrici di un messaggio. Sento molta attenzione nei miei confronti da parte di queste praticanti di lunga data (sono quasi tutte donne e alcune di loro praticano da molto, anche venti o trent’anni). Per me è una gran gioia sentirmi in qualche modo veicolo in Giappone di Tsuda, o almeno di quello che di lui risuona in me. Qui a Kyoto, mi sono sentito tale in tante occasioni e spesso lui è riecheggiato nelle mie parole. Credo anche che del suo respiro, della sua visione così aperta, universale e profondamente umana ci sia ancor oggi un gran bisogno. Perfino in Giappone. Venire qui per me non è stato casuale né un viaggio qualsiasi. Da alcuni anni mi piace definirmi “sulle tracce di Itsuo Tsuda”. E’ una definizione che ancora adesso sento fresca e aperta. C’è il sapore del viaggio, della scoperta, del mistero. Ora che ho ritrovato molte sue orme nel suo paese natale, che ho trovato alcuni dei suoi primi scritti nelle riviste “Zensei” degli anni ’60 (che belle!), che ho l’opportunità di risalire almeno in parte al periodo che precedette la sua partenza per l’Europa e al contesto in cui si sviluppò la relazione con Haruchika Noguchi, sento che queste “tracce” diventano più chiare e concrete. Posso pormi nuove domande sulle scelte che Tsuda operò per rendere accessibile agli europei il Katsugen undo, quarant’anni fa. E trovare nuove risposte. Posso comprendere meglio la qualità e l’unicità del suo Aikido, valutare con più coscienza l’apporto determinante che ad esso ha fornito il Seitai, nutrirmi io stesso alla medesima fonte. Mi aspetta un gran lavoro e mi ci preparo con gioia.

Dopo il pranzo siamo di nuovo tutti seduti sui tatami chiari del dojo. Prendiamo il thé e mangiamo il panforte di Siena che ho portato. Ho un gran sonno e mi sento lento e pesante. Il nipotino di Haseo, che avrà forse 8 anni, ci mostra il kata di karate che ha imparato. E’ molto concentrato e chiede alla giovane mamma di dargli il via per cominciare. Fa anche un kiai.
Poi tutti mi chiedono: “Dai, mostra l’aikido…”
“No, no!” dormo con gli occhi aperti e non è il momento…
Ma loro insistono. E’ il momento.
“Su, Yoshiko, vieni e aiutami un po’…”
Oltre a Yoshiko, che ha una gran voglia di provare (e oggi credo anche di continuare), chiamo la giovane figlia di Haseo che aveva preparato il thé verde per tutti noi. Come uno scambio di doni.
Il sonno è sparito quasi per incanto. Per mezz’ora faccio vedere tanti tanti movimenti, non smetterei più. Haseo teme che la sua “bambina” si rompa. Ridendo, rassicuro la mamma, che ha la reazione spontanea di altre mamme che ho conosciuto. In realtà sua figlia e Yoshiko sono bravissime e non hanno nessuna difficoltà a seguire e comunicare. Praticano yuki e ho detto tutto.

L’aikido è piaciuto! Prometto una lezione nel dojo di Onizuka in agosto. Sensei permettendo… Ma lui è d’accordo, pratichiamo lo stesso ai-ki-do.
Andiamo tutti di sopra, nell’antico tempio buddhista da poco restaurato. Nell’ampia sala con un liscio parquet di legno scuro, in fondo è appoggiato verticalmente un koto, strumento tradizionale della musica giapponese, alto e stretto, dalle lunghe corde. Il maestro Noguchi, con il suo seifuku kiai - ieeei-ei! - suono del ventre e dell’anima, faceva risuonare le corde del koto da molti metri di distanza. Era in grado perfino di decidere quale corda far risuonare.
C’è anche una piccola campana di bronzo che, a volte, con il kiai entra in risonanza (soprattutto di mattina, pare).
Mi concentro, inspiro a fondo e faccio il mio kiai.
Un bel kiai.
Non vibrano né le corde né la campana.
Sarà per la prossima volta…


Milano, 20 gennaio 2008                                                                                             (fine)

~ *** ~

domenica 9 febbraio 2014

giovedì 6 febbraio 2014

Dakar, diario di un'immersione (2)



 



Preambolo

Dormo in un letto largo ma che caldo questa prima notte! Nella piccola stanza gira poca aria, essenzialmente quella che diffonde il vecchio ventilatore. Ho già capito che in questo viaggio non incontrerò l’Africa dei grandi orizzonti e dai cieli infiniti. Qui troverò altra cosa, l’Africa urbana e l’umanità che esprime, nella sua versione senegalese, beninteso.
Molti europei stentano a rendersi conto che l’Africa sia un continente immenso e che le differenze che esistono tra i popoli e le tradizioni dell’Africa occidentale e quelli, per esempio, dell’Africa orientale o di quella centrale siano quasi sempre di gran lunga superiori alle caratteristiche comuni e condivise. Sì, è possibile parlare di un grande albero da cui si diramano rami disparati. Le radici di quest’albero sono comuni (è una bella immagine, perché non evocarla?) ma i frutti che la pianta offre sono molteplici. Ed ognuno ha il proprio sapore unico.
L’Africa che ho avuto modo di esplorare e frequentare in questo mese - un mese è un tempo lungo o breve? - si chiama Senegal, e più precisamente Dakar, capitale ambita e affollata. Non ho incontrato elefanti, che qui non ci sono, né antilopi né leoni. Qualche immenso baobab, per fortuna sì, nelle rare e riposanti fuoriuscite che mi sono concesso e di cui ho approfittato pienamente.
Questo solo per circoscrivere da subito il campo di gioco e le regole che voglio darmi. Dell’Africa in generale tutto si può dire e il contrario di tutto. In quanto a me, non saprei proprio cosa aggiungere a quanto è stato già detto da altri. E’ stato il mio primo viaggio subsahariano e voler parlare di “Africa” mi sembra perlomeno presuntuoso. Di Guele Tapée, di questo quartiere multicolore e popolatissimo, però qualcosa posso raccontare. Parlerò di chi ci vive e di come ci ho vissuto io. Brevi considerazioni e riflessioni di interesse certo relativo e circoscritto. Tuttavia, quello che in primo luogo mi preme è dare corpo e parola a sensazioni vissute piuttosto che addentrarmi in analisi azzardate. Lascio ad altri conclusioni e commenti, mi limito a ciò che i miei occhi sono stati in grado di vedere.
Ecco, ora che mi sono per così dire giustificato e che ogni cosa che mi accingo a scrivere non rischia di sfuggire alla sua giusta dimensione relativa e soggettiva, mi sento più tranquillo e più libero di agire. Posso spaziare nel tempo e nella forma ed evito in questo modo di dovermi attenere a qualsiasi coerenza sia essa linguistica sia di contenuto. In un certo senso scarico le responsabilità per poter respirare: un vecchio trucchetto. Ma funziona.
Cosa sono queste pagine? Voglio chiamarle “Diario di un’immersione”.  Il personaggio, se proprio è necessario averne uno, sono io. Preferisco la soggettività con tutti i suoi limiti, e la sua umanità, ad un’oggettività distaccata di cui sono peraltro incapace. Per immergersi, l’unico elemento indispensabile è quello di tuffarsi senza timore di bagnarsi: questo sono riuscito a farlo e senza nemmeno troppo sforzo. Ne sono anche piuttosto fiero. In trenta giorni passati a Dakar ho nuotato in un mondo diverso da quello a cui ero abituato, fluttuando tra profumi e lezzi maleodoranti. Soprattutto però ho incontrato un’acqua di sorgente viva, l’acqua del Sabar… E ho provato a berla!


Yama

Ho conosciuto Yama a Parigi, nel maggio scorso. Da alcuni mesi avevo incontrato la danza africana e mi ci ero gettato a capofitto con un entusiasmo giovanile ritrovato. Una parte di me intuiva una grande libertà di espressione potenziale attraverso la danza e i ritmi africani. Da subito ho avuto anche la consapevolezza che attraverso di essi avrei potuto integrare ed approfondire la mia ricerca che da anni si sviluppa attorno a arti più “orientali” come l’Aikido e il Taiji quan e alla pratica del Katsugen undo, che arte non può definirsi, ma che sta alla base di tutta la mia filosofia di vita. Ora, man mano che le esperienze vissute crescono, ne sono sempre più convinto anche se il filo che in me lega il Giappone con l’Africa mi sembra ancora del tutto interiore e personale. Eppure, una voce sicura dentro di me mi dice che i legami tra questi due mondi apparentemente così lontani sono in realtà più stretti di quello che si possa credere e che vadano ben oltre la mia sfera soggettiva. Non è adesso, però, il momento di trattare questo tema, rischierei che da un’iniziale breve parentesi il discorso si allarghi a dismisura portandomi troppo lontano. Tornerò sull’argomento più tardi, senza ombra di dubbio, poiché in esso si trova il motore che muove la mia ricerca nel percorso che le è riservato.
Insomma, mentre il mondo orientale, le sue pratiche e le sue filosofie, hanno accompagnato i miei anni giovanili, l’Africa, con modi e voci diverse, mi ha chiamato a sé in età matura.
Yama è stato il suo ambasciatore così come Sotigui Kouyaté, mio papà africano, ne era stato il profeta. “Il est temps que tu ailles en Afrique” mi aveva detto Sotigui poco tempo fa. Detto fatto, attendevo solo l’occasione di partire non come turista ma come viaggiatore. Questa chance mi è stata fornita da Yama e l’ho colta al volo. Una notte parigina è stata sufficiente per decidere. Al mattino tutti i miei piani estivi erano ormai ribaltati per lasciare spazio a questo mio primo attesissimo viaggio nell’antico continente. Avrei pensato al Burkina Faso come prima meta, o al Mali. E’ stato invece Senegal: per via del Sabar e per via di Yama.
In una lezione di un’ora e mezza al Centre Momboye questa esile donna è riuscita a farmi sentire per la prima volta in vita mia il piacere della danza e l’inebriante sensazione di saper ballare. Mi ha scosso, mi ha spronato a lasciarmi andare, mi ha gridato in faccia di svegliarmi invitandomi a vivere. Tutto questo mentre i sabar incessanti scandivano il loro ritmo che non potevo, non dovevo, lasciare neanche un istante. Sono uscito sudato e contento dalla sala di danza dicendomi: “Io posso”. Di Yama proverò a dire qualcosa nelle pagine che seguono, anche se non so se sarò in grado di farne un vero ritratto. Sono certo comunque che ci siamo visti dal primo momento in cui ci siamo incontrati, ci siamo capiti e abbiamo dialogato da cuore a cuore. E’ scaturito in un istante un rapporto di amore e libertà: bello, no?
Amore e libertà mi hanno invitato in Senegal. Desiderio di amore e libertà muove i miei passi e da loro forza.