L’Aikido, via del
Respiro
III
Il
norito la mattina, boschi nel buio, la stella
Ogni
mattina, durante il lungo cammino di quest’estate, che fosse nei paesi baschi,
in Cantabria, nelle Asturias o in Galizia, che fosse la mattina prestissimo,
quasi notte, o il giorno già pieno, non ho mai dimenticato di cantare il norito. Questa pratica, questo piacere
nella presenza e nella condivisione della presenza, ha congiunto in me due
cammini, quello “francese” quasi iniziatico del 2004 e questo del “Norte”,
d’età matura, senza soluzione di continuità. Un filo vivo cantato ogni mattina
dalla mia voce durante quei “primi passi necessari” e che si riannoda con
questi “altri passi necessari” del 2017. Il prendere coscienza dell’esistenza
di questo filo invisibile mi ha dato la sensazione di uscire dal tempo lineare.
L’allora e l’oggi, mentre camminavo, erano strettamente uniti, fusi, vibranti
nel momento presente.
Il norito
è un'invocazione di origine shintoista tramandata e trasmessa nel passato quasi
sempre oralmente. Lo shintō, a sua
volta, è una forma di religiosità popolare giapponese non codificata fino al xx
secolo, quando venne in qualche modo istituzionalizzata dal regime
imperialista, che la utilizzò per veicolare il proprio messaggio nazionalista e
affermare la supremazia di carattere “divino” del Giappone, esaltando la figura
dell’imperatore, discendente diretto degli dei.
Prima, dalle origini fino al ‘900, lo shintō, come il taoismo in Cina, non
poteva esser considerata una religione vera e propria, con una forma
dottrinaria scritta e ben definita. Nasceva nella spontaneità popolare e si
esprimeva attraverso feste e ritualità di carattere religioso legate alla
vitalità, alla fertilità, alla natura. Il divino e le sue molteplici
espressioni, i kami - gli dei -, si
incarnavano in esseri umani, alberi, pietre ed era possibile sentirlo,
toccarlo, esserne toccati. Si trattava di una forma di religiosità diretta,
senza mediatori, nella quale l’uomo partecipava di un Universo di cui poteva
sentirsi al contempo centro, strumento e parte integrante. Esprimendo tutto ciò
in termini personali potrei dire che non esisteva separazione tra l’uomo e
l’universo, tra l’uomo e dio, tra l’uomo e la natura.
Il norito
è un inno alla vita e a chi la vive. Cantandolo o recitandolo, si
entra in risonanza con la natura e si chiamano a raccolta tutti gli esseri e le
creature divine, celesti e terrene, che la animano. La voce dell’uomo che la esprime,
come la respirazione che la accompagna, diventano ponte tra un dentro e un
fuori che finiscono per fondersi e riconciliarsi in una sublime unità.
Le parole del norito
che oggi conosco e canto ci sono giunte da Itsuo Tsuda (1914-1984) che le
recitava la mattina nel dojo di Parigi all’inizio di ogni seduta di Aikido. Un
giorno, nel 1982, esse arrivarono anche nel piccolo dojo milanese di via
Bezzecca trascritte a mano su un foglietto. Ricordo che Ombretta ed io ci
mettemmo insieme, accovacciati per terra, cercando di leggere quelle parole
senza alcun senso e di impararle a memoria. Nei giorni seguenti continuai a
leggerle a casa e la memorizzazione fu rapida, senza particolari difficoltà.
Tsuda, per quanto ne so, non volle mai tradurre le parole
del norito. Lasciava intendere però
che bisognasse coglierle in quanto tali, per il loro suono. Che non fossero
dipendenti e legate ad alcuna religione. Ciò che contava era il loro carattere
universale, non che fossero espressione della cultura giapponese. Invitava alla
pratica del norito, pratica
dell’ascolto, più che alla sua comprensione; a cogliere la sua risonanza, a
svuotarsi dall’interpretazione per lasciarsi penetrare dal suono, con
semplicità e purezza d’animo.
Devo dire che per me, che sono aperto alla dimensione religiosa
ma piuttosto refrattario, per il loro carattere invadente e moralista, alle
religioni costituite, questo è stato un fattore determinante nel rendermi
simpatico il norito: non dover
aderire ad un credo già stabilito ma poter sentire dentro di me, in prima
persona e senza filtri, una risonanza che mi univa a qualcosa di più grande e
senza forma.
Sentire dove? Principalmente nel ventre e nell’hara. Ho sempre avvertito la vibrazione
del norito nella pancia e in quello
che sento come il mio Centro, che in Giappone viene chiamato hara, ancor prima che nel cuore o nel
cervello.
Morihei Ueshiba, fondatore dell’Aikido, e Haruchika
Noguchi, fondatore del Seitai, intendevano la stessa cosa, quando dicevano: “Io
sono il Centro dell’Universo”.
Il corpo che siamo esprime questa universalità e, al
contempo, l’unicità propria di ciascun individuo. Non siamo due, io e
l’universo, bensì “Uno”, scissi solo in apparenza ma fondamentalmente e
indissolubilmente uniti.
Per quanto riguarda l’Occidente, non c’è bisogno di
tornare così indietro negli anni risalendo fino alla “Armonia Nascosta” di
Eraclito per sentir parlare di un centro in cui i dualismi si dissolvono e gli
opposti si congiungono. Anche Luis Cortázar, pochi decenni fa, con parole che mi
ispirano molto - e molto più vicine al sentire occidentale - disse: “ (…) il Centro sarebbe quella dimensione nella
quale l’essere umano, individuale e collettivo, può reinventare la realtà”.
Ritorneremo in seguito su centro e hara, così strettamente legati a ciò che, nella mia percezione, è
Aikido. Per ora, mi limito a evidenziare che anche il norito possa essere definito come emanazione sonora di un centro,
istante senza tempo – all’inizio del tempo? - in cui la realtà si reinventa e
si ricrea.
Durante il cammino estivo, per recitare il norito, congiungevo le mani nel mudra che mi è stato trasmesso con la
pratica: le dita si intrecciano, gli indici e i pollici si toccano. Nelle
sedute di Aikido, Itsuo Tsuda, in seiza
- seduto sui talloni - portava le mani unite davanti agli occhi in questo mudra, con i gomiti aperti ad altezza
delle spalle e cominciava a recitare. Con la stessa gestualità recitava il norito anche Morihei Ueshiba, come si
può vedere in alcuni filmati dell’epoca. Quest’estate, tuttavia, ho fatto una
scoperta. Ci sono arrivato da solo, senza che nessuno mi desse indicazioni.
Stando in piedi, spontaneamente e mantenendo lo stesso mudra, con le spalle distese ho portato
le mani al ventre, sopra lo hara. Mi
sono accorto subito che questa postura, così semplice – come mai non l’avevo
mai praticata prima? - ha una grande potenza e aiuta tutte le nostre energie a
concentrarsi in una zona del corpo nella quale la vitalità si esprime in modo
particolare. Il solo atto di porre così le mani mi faceva sentire a casa, in
asse e in pace. Allora, nella quiete del mattino, solo in mezzo alle pianure,
alle valli, ai boschi, lasciavo che il suono sorgesse e uscisse libero...
Cercando in una vecchia edizione italiana del Kojiki, antico libro che tratta dei miti
e della cosmogonia giapponese, ho scoperto che il norito che recitava Tsuda – ne esistono diversi altri - si chiama Misogi no Harae. Misogi è un rituale di purificazione. In parole semplici, la storia
di questo norito narra di Izanagi e
Izanami, divinità maschile e femminile, e di come Izanagi, ritornando dal mondo
degli inferi – in cui era sceso, come Orfeo con Euridice, per rivedere la sua
Izanami - si lavi in un fiume, purificandosi. Da queste abluzioni, da ogni
parte lavata del corpo, nascono nuove creature e vita.
Per Itsuo Tsuda, l’Aikido poteva esser inteso come una
via di purificazione, di un’occasione per rendere più chiaro il nostro Ki, inserita in un percorso che definiva
di “spoliazione”. L’idea di rafforzamento del Ki – per poterlo utilizzare con efficacia - gli era estranea, anzi
credo proprio che la vedesse con ostilità e un certo disprezzo. Un percorso di
spoliazione, come un lungo cammino, aiuta a lasciar cadere, abbandonare,
liberarsi da tutto ciò di cui non necessitiamo veramente. E consente alla
nostra vera natura di manifestarsi con più chiarezza. Il diamante che, secondo
il buddhismo zen, esiste in ciascuno
di noi ha solo bisogno di esser pulito e lasciato brillare in piena libertà.
Non a caso, dal mio punto di vista, Tsuda recitava un norito di purificazione all’inizio della pratica mattiniera
dell’Aikido. Esso si sposava così bene con il suo modo di intenderlo e
praticarlo, con la sua filosofia pratica... L’ego del praticante, più che ingrandirsi all’infinito, “petit à
petit”, poteva cominciare a ridursi.
La progressiva diminuzione dell’ego crea e lascia lo
spazio necessario affinché si desti in noi una nuova sensibilità e il desiderio
di avventurarsi nel grande mare dell’Aiki…
Per il proprio bene e per quello di tutti.
Ma se nell’Aikido moderno, almeno nelle sue forme più
diffuse e conosciute, si è scelto di scindere la pratica “marziale” da quella
spirituale e di considerare quest’ultima quasi un di più, una parte
strettamente personale e in fondo facoltativa, questa non è da considerarsi una
scelta da poco. Essa porta con sé sicure conseguenze, nel senso anche di uno
svuotamento della pratica stessa, perché ne vengono meno i fondamenti. Se chi
parla di norito o di ki nell’ambito dell’Aikido viene oggi immediatamente
guardato con sospetto o tacciato di esoterismo forse è perché qualcosa è andato
perso, un filo si è spezzato.
Come parlare di Aikido “senza ki”? L’impressione è che ci
si stia addentrando in un terreno davvero paradossale. Esigenze di carattere
sociale, di gestione – del potere, delle federazioni e degli allievi – o di
marketing stanno dietro a scelte molto riduttive e discutibili. Esiste un corpo
senza spirito? Sí, quando giace privo di vita. Ci vorrebbero portare a credere
che esista il pane senza glutine, il vino senza l’alcool o l’apprendimento del
nuoto “stando seduti in poltrona” come amava dire Tsuda.
La dimensione del Ki,
terreno del sentire e del sensibile, è la dimensione in cui l’Aikido vive e si
manifesta. Ciò comporta, nel praticante, la necessità di un’apertura a ciò che
avviene nell’invisibile e nell’immateriale. Spirituale e invisibile sono per me
quasi sinonimi. Dire che esiste solo ciò che “si può vedere e toccare” – ricordate
l’apostolo Tommaso? – o ciò che è misurabile, quantificabile, materiale,
trasformerebbe questa pratica dai limiti indefiniti e sempre mobili in
esercizio meccanico, formale, ripetitivo: in poche parole, almeno per quanto mi
riguarda, in qualcosa di estremamente… noioso.
Forse però la causa di un certo impoverimento filosofico
dell’Aikido moderno, oltre alla diffusa perdita di una sensibilità normale –
quanto di ciò che accade nel mondo di oggi ci spinge e costringe
all’insensibilità! - è l’ignoranza e la paura di ammetterla. Ci possiamo
tuttavia chiedere perché il “non sapere” debba esser considerato un’onta quando
si tratta solo di una sincera constatazione di una realtà. La necessità di
rimuovere, cancellare, separare, tacere, nasce molte volte dal non voler
riconoscere una fondamentale ignoranza.
Se appena si allargasse la visuale, potremmo scoprire con
sollievo che “sapere di non sapere” è la più grande delle saggezze. Sembra però
che ci sia ancora chi non lo abbia compreso o che non voglia riconoscerlo.
“Sapendo di non sapere” ci si apre al nuovo e si dona nuova linfa al desiderio
vitale dell’apprendimento. “Sapendo di non sapere” si scopre che è concepibile anche
una via di conoscenza non razionale. “Sapendo di non sapere” si esce dall’ignoranza
e la si vince: sembra un paradosso ma non lo è; anche se, lo ammetto,
quest’ultima frase può apparire più come un koan
zen che come un assioma…
Una parte dell’Aikido delle origini è andata senz’altro
perduta. Forse però in questa parte risiede il senso profondo di questa pratica
e, negare la sua esistenza, sarebbe un po’ come rifiutare la sua essenza,
buttare via il bambino con l’acqua sporca. Credo che, per ogni praticante che
voglia addentrarsi nei segreti – nei misteri? Nei piaceri - dell’Aikido, sia lecito
porsi molto seriamente questa domanda.
***
Luci
nella notte.
Quella
mattina del 22 agosto sono partito prestissimo, il buio era ancora profondo.
Pensare
che da piccolo lo temevo, il buio, ora invece mi cullava.
Era
caldo, avvolgente, denso…
Questa
calma che sentivo, era forse perché in me avvertivo ancora il chiarore
dell’eclissi del sole che avevo visto la sera prima?
Un
sole che poi si trasformava in due soli… poi in tre. Una festa di luce tra le
nuvole dorate.
Solo,
mi sono addentrato nel bosco galiziano dove niente si vedeva e mi sono mosso
con l’allegria nel cuore finché, ad un certo momento, sono sbucato in una
radura in cui il paesaggio si apriva.
Il
cielo era limpido, le stelle splendevano ovunque.
Alle
mie spalle riluceva con tutta la sua forza Venere: la presenza insistente e
protettiva che ha questo pianeta di mattina è davvero sorprendente. Ogni giorno
del cammino ha guidato i miei passi nel buio, coprendomi le spalle e
indicandomi una via.
Ai
miei lati, a sinistra come a destra, vibravano gli alberi della foresta, pieni
di presenze.
Si
stagliavano dritti e scuri nello sfondo notturno oscuro.
Sentivo
come se mille occhi mi stessero osservando, mille orecchie fossero in ascolto.
Esseri
di origine varia e misteriosa, vivi e invisibili, ma anche terribili ed
esigenti.
Ed
io che camminavo silenzioso, piccolo grande uomo immerso nella natura, corpo in
movimento.
Ecco,
ora giunge il momento del norito, il momento di innalzare la mia voce, di
cantare la vita.
L’invocazione
si presenta da sé, non si ha da cercarla, viene sempre opportuna.
È
chiaro che ciò che la suscita sia una necessità interiore.
Per
chiamare a raccolta tutto ciò che già vibra intorno, per portare al ventre
tutta questa vita, batto forte le mani, due volte, all’inizio come alla fine.
In
un silenzio assordante ho cantato a voce alta, con intensità e con piacere.
“Takama
no hara ni kamu zumarimasu
Kamurogi Kamuromi no mikoto mochite…
(…) Amatsu kami kunitsu kami yaoyorozu no
kamitachi… (…)”
E
altre bellissime parole e suoni…
Sono
vivo e sono l’Universo che si canta.
Sento
fino in fondo la pienezza del momento.
Poi
chiudo questo momento magico con altri due battiti di mani.
E
subito, la Stella appare e risplende!
Davanti
a me, appena le mie mani avevano smesso di risuonare, una luminosissima stella cadente
aveva attraversato tutto l'orizzonte ed era scesa proprio nella direzione del
mio cammino…
Lunga,
dolce, luminosa, era la prima che vedevo in tutto il mio cammino di agosto.
Non saprei
dirvi, ora, quanto forte sia stato l'effetto che questo segno, così chiaro e
così propizio in quell’istante, ha avuto su di me.
Ho
sentito che stavo andando nella direzione giusta, senza margini per alcun
dubbio.
Gratitudine
per la stella che brilla dentro e fuori di me…
(
ottobre 2017 )