L’Aikido, via del
Respiro
II
Risvegli,
senso di libertà e entusiasmo
Il
portoncino di legno di via Castelfidardo 2 sbatte pesantemente perché esco
correndo e non lo accompagno. Non ce n’è il tempo e mi tuffo in quella che è
ancora notte milanese. Percorro un isolato e poi i miei occhi vanno lontano,
cercando di scorgere la 96 che, da un momento all’altro, dovrebbe attraversare
Largo La Foppa, in fondo alla via Moscova. Ecco che la intravedo, illuminata e
silenziosa. Non mi resta più molto tempo, posso solo correre a perdifiato per
duecento metri di via Solferino e sperare di prenderla al volo, all’angolo di
Largo Treves. Ho diciassette anni e le mie lunghe gambe vanno veloci. Sono certo
di potercela fare e, infatti, ansimante e al limite delle mie forze, riesco a
salire i gradini dell’autobus prima che la porta si rinchiuda e posso lasciarmi
cadere su un sedile libero. Prendere il primo autobus delle 6.20 mi consentirà
di partecipare alla seduta di Aikido fin dal suo inizio, perderlo sarebbe sinonimo
di ritardo e frustrazione e, questo, proprio non lo voglio!
Tanti anni
dopo, non mi costa alcuna fatica alzarmi e uscire prima, arrivare agli
appuntamenti con il tempo necessario per viverli tranquillamente, prepararmi
con lentezza e respirare. Negli anni giovanili però… tutto si giocava in un attimo,
tutto all’ultimo istante, le mie energie erano proprio differenti! Eppure io non sono forse sempre lo stesso? Posso
dire che qualcosa sia davvero cambiato in me?
Nell’autobus
delle 6.20 ci sono sempre le stesse persone, una piccola famiglia di passeggeri
e lavoratori che si ritrova ogni giorno. Ecco, a questa fermata salirà tal
persona – oggi non c’è, che strano! – all’altra la signora che parla tanto e a
voce alta… Insomma, si va avanti così, con paesaggi umani che si ripetono,
persone che ancora dormono in piedi, altre che prendono la giornata con
leggerezza fin dal suo inizio.
Io invece
vado all’Aikido e me ne sento fiero.
È una mia scelta consapevole, non sono costretto ad alzarmi così presto,
lo faccio per puro piacere.
E questa fatica, questo sforzo – buttarsi fuori da un piumino caldo per
trovarsi nudi in una stanza poco riscaldata – hanno tutto il loro senso nel mio
cuore e nella mia mente. Invito me stesso, quando nessuno mi obbliga, a un
risveglio dal sapore dolce. Comincio a scoprire, pian piano, che anche nella
difficoltà sta il gusto della vita. Sono primi passi di una via che porta
all’autonomia, lo sento e lo spero.
Scendo all’angolo di Corso di Porta Vittoria, davanti alla biblioteca
Sormani. Ho poco più di dieci minuti per arrivare alla palestra di via
Bezzecca, una parallela di via XXII marzo, che è quindi ancora lontana. La
seduta comincerà alle 6.45, non rimane che affrettarmi, senza pensarci troppo.
Ma anche oggi, che fortuna, scorgo la piccola 126 bianca di Giuseppe e
Ombretta che sbracciando mi fanno segno di raggiungerli. Ancora una volta siamo
passati dallo stesso incrocio nello stesso momento. Riesco a infilarmi nel
minuscolo abitacolo della FIAT e allegramente andiamo insieme alla pratica:
adoro i passaggi di prima mattina e anche loro sembrano contenti di raccattare
un giovanissimo entusiasta che vaga nella notte per raggiungere pochi vecchi
tatami di gomma verde che però profumano di libertà.
Tatami gelati, accidenti, perché in quella palestra di un qualsiasi
sottoscala milanese manca più di un vetro e gli spifferi invernali sembrano la bora
nelle vie triestine. C’è una piccola stufetta elettrica, accesa al massimo, ma
scalda quasi solo la vista. Poco importa però, posso scaldarmi muovendomi e
poi… ho scoperto l’Aikido e lo amo alla follia. Com’è che non lo amano tutti con
la mia stessa intensità? Sarà forse che non lo conoscono?
Il viso di Yao rimane quasi impassibile mentre gli scuoto i piedi
delicatamente. “Yao, è l’ora dell’Aikido, è il momento di alzarsi…”, è sempre
difficile svegliare qualcuno che dorme, quasi inumano. Per questo lo faccio
solo se la sera prima la decisione è stata chiara: “Sì, svegliami, io vengo”.
Per ora, Yao è sempre stato convinto nelle sue risposte e, nel dire che verrà,
un piccolo sorriso si dipinge sulle sue labbra. Pregusta qualcosa che gli
procura piacere, è questo ciò che conta e rende meno ingrato il mio compito di
svegliarlo.
Passo su e giù le mani sulle sue braccia, fino alle spalle: i suoi occhi
sotto alle palpebre chiuse si muovono appena e poi si aprono poco a poco. Il
corpo si raddrizza e lui si siede sul letto. È l’inizio un po’ insolito di una nuova
giornata. Seppur dormendo riesce ad alzarsi e, non si sa come, a restare in
piedi!
Chissà se dentro di sé sente una differenza tra quando si alza per
andare all’Aikido e quando si alza per andare a scuola? Io la sentivo eccome: nel
primo caso ero attore e artefice del mio risveglio, sceglievo il mio presente,
nel secondo mi adeguavo a una realtà che non poteva essere altrimenti.
Nei giorni in cui, la mattina presto, partecipavo all’Aikido in via
Bezzecca, giungevo poi al Liceo Berchet di via Commenda quasi all’ultimo
momento prima che le porte chiudessero, mi sedevo nei banchi in fondo alla
classe e, con l’animo in pace, mi addormentavo rilassato. È successo davvero,
non una ma tante volte. Nessun senso di colpa, dormire è magnifico, salutare e
rigenerante: almeno quanto lo è l’Aikido!
Nel dormiveglia usciamo da casa, Yao ed io, ci infiliamo nella
metropolitana e viaggiamo senza scambiarci troppe parole. Io, con spirito un
po’ paterno, mi chiedo cosa pensi, come viva questi momenti, se gli rimarranno
come ricordi significativi quando sarà più grande. Lui, chissà dove vaga la sua
mente, vede e pensa cose tutte sue, in fondo non mi riguarda proprio. È sua la vita
che incontra la mia solo per qualche attimo, anche se so bene che gli attimi,
senza quasi che ce ne si accorga, possono rapidamente trasformarsi in anni. Mi
preme una cosa però, che questi momenti trascorsi insieme possano essere momenti
di libertà, vissuti con serietà, pienezza, semplicità. Poi, ora o più tardi, li
elaborerà a suo piacere e con i criteri che riterrà più opportuni.
Anche questa estate, a Seix, che gusto quando scendevamo tra campi e
alberi nella bruma del primo mattino, a volte umido e piovoso, a volte
soleggiato, per raggiungere dopo un cammino di almeno venti minuti il dojo
dello stage estivo. Yao, trascinando improbabili infradito, così scomode per
camminare un po’ a lungo, ma interiormente tutto felice di poter ritrovare
entro poco tempo uno spazio aperto e accogliente che ha nel centro una porta
che si apre sul torrente di montagna. In quel luogo del possibile, un dojo,
potrà volare ancora una volta, sopra, sotto, in mezzo agli altri praticanti.
Sì, ha quindici anni, Yao, e gli piace volare, proprio come piaceva a
me, allora, e continua a piacermi oggi. Un giorno ha detto che apprezza
l’Aikido perché si sente libero di poter essere tutto ciò che vuole. Di
prendere tutte le forme. Che differenza c’è con Itsuo Tsuda che diceva di amare
l’Aikido perché gli consentiva di uscire dalla propria pelle, di superare i
limiti del corpo per unirsi a qualcosa di molto più grande di lui? A mio avviso,
almeno nel fondo, nessuna. Solo due linguaggi diversi, espressione di due
maturità diverse. Due coscienze, due culture, due corpi – uno, quello di un
settantenne con lo spirito di un giovane, l’altro quello di un giovane che ieri
era ancora un bambino – eppure uno stesso desiderio: quello di sentirsi interiormente
liberi.
Il corpo di Yao, quando è arrivato al dojo pochi mesi fa, assomigliava a
un giovane giunco di bambù. Lo piegavi in un senso o nell’altro e prendeva la
forma che gli davi. Flessibile, elastico… e vulnerabile nella sua fragilità. Un
amalgama di giovinezza e vitalità ma anche di sensibilità ferita e di tonicità
che si è smarrita da qualche parte per chissà quale motivo e vissuto. Praticare
con lui e vederlo praticare con gli altri mi ha fatto molto riflettere.
È così facile per un adulto, per un genitore, per un insegnante, formare,
deformare, raddrizzare, storcere, plasmare, spingere, tirare, istruire,
influenzare il corpo di un giovane, di un bambino, di un bebè. In nome di un
bene possibile, di un’idea educativa, di una convinzione dettata dalla buona
fede. Finiamo tutti per fare così, in un modo o nell’altro, quando,
immancabilmente, viene meno il rispetto per ciò che ciascuno è e ci si lascia guidare solo da ciò che
vorremmo che qualcuno diventasse. Non confidiamo abbastanza in ciò che è già in
essere, sotto ai nostri occhi che però non sempre vogliono vedere, e mettiamo
tutta la nostra volontà, il nostro impegno e il nostro lavoro al servizio di un
futuro immaginario che non sarà mai come lo abbiamo pensato prima.
Incoscientemente, nell’incoscienza delle conseguenze che ciò comporta,
condizioniamo la vitalità dei nostri piccoli e di chi amiamo. Li pieghiamo ai
nostri desideri e alle nostre paure. Diamo un sistema alle loro esistenze,
seguito poi da un altro e poi da altri ancora che loro stessi finiranno per
darsi, perché non sappiamo vedere né riconoscere che la vita, indipendentemente
dal nostro intervento educativo, protettivo, formativo, possiede già una
struttura solidissima e una capacità di auto-regolazione ed equilibrio
funzionale che si sono perfezionati e sono stati messi alla prova da millenni
di evoluzione umana, animale e vegetale.
Quale sia questa struttura fondamentale della vita e in che modo unico e
particolare essa si esprima, attraverso il movimento spontaneo, nel corpo di
ciascuno, ecco due domande che mi accompagnano da tempo e che sono più che
presenti quando mi viene incontro, sui tatami, un giovane – o vecchio,
d’altronde che differenza fa? – praticante di Aikido. Le neuroscienze moderne,
cito volentieri André Stern che ne parla diffusamente, ci dicono che gioco e
apprendimento sono strettamente connessi e addirittura inscindibili. Che
l’entusiasmo è il motore di profondi processi evolutivi. Un giovane è per me chi
è capace di entusiasmo, a quindici come a novant’anni. Anche Itsuo Tsuda, quando
doveva definirlo, ci diceva che l’Aikido è l’arte di “essere bambini senza
essere puerili”: bambini di ogni età capaci di entusiasmo, di visualizzazione,
di azione viva e spontanea. Niente a che vedere con la tecnica, la
progressione, i risultati… ma di questo parleremo in seguito.
Eccolo che entra sui tatami, Yao, silenzioso e piuttosto discreto. Con
la coda dell’occhio vedo che, rispetto a mesi fa, si muove in modo nuovo, è
tutto un po’ più dritto, più in asse, meno traballante. Guarda davanti a lui e
non solo i suoi piedi. Sta facendo tutto da solo, viaggia nei suoi paesaggi,
segue il suo desiderio. Io c’entro poco, gli dico il meno possibile, mi basta
vedere il suo sorriso che si accende qui e là. Ogni volta che vola.
( ottobre
2017 )
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